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Il consolidamento dei social network come parte integrante della nostra quotidianità ha stravolto per sempre tutte le regole del marketing.

Se fino a una decina di anni fa i marchi dovevano fare affidamento su tecniche pubblicitarie tradizionali, al giorno d’oggi sono molteplici i fronti sui quali è possibile investire con la certezza di avere successo: uno di questi è l’influencer marketing.

All’interno di questa categoria troviamo alcune figure dalle caratteristiche diverse tra di loro: influencer, ambassador e brand advocate. Scopriamo insieme di chi si tratta e quali sono i loro ruoli.

Chi sono gli Influencer

I cosiddetti influencer sono personaggi pubblici di grande spicco sui social network quali Instagram, Youtube e TikTok, ai quali le aziende si rivolgono per promuovere i loro prodotti e servizi. Grazie alla popolarità e al carisma dell’influencer, il marchio riesce ad arrivare ai suoi follower aumentando così la propria brand awareness.

Per diventare influencer non è necessario avere titoli o competenze particolari, bensì trasmettere intensa passione e interesse verso l’ambito che si decide di trattare, oltre che ottime capacità di relazione e coinvolgimento con i propri follower. Questo farà sì che il pubblico percepisca l’influencer come una figura autorevole, il cui parere sul determinato argomento ha un peso così rilevante da influenzare le proprie abitudini di acquisto.

Proprio qui sta la differenza tra un odierno influencer e un ormai datato “testimonial“: durante  il secolo scorso, nel periodo di massima diffusione e popolarità della televisione come unico mezzo di intrattenimento domestico, si è affermata la figura del testimonial in quanto celebrità inarrivabile che rappresenta un brand negli spot pubblicitari. Per definizione si tratta di un personaggio lontano dalla popolazione, che lo percepisce come un modello da imitare senza potersi rispecchiare in lui.

Gli influencer, invece, abbattono quasi ogni barriera tra loro stessi e il proprio pubblico, con il quale interagiscono, scambiano chiacchierate e consigli, raccontano episodi di vita quotidiana e ai quali, chiaramente, propongono prodotti e servizi in collaborazione con le aziende. Questa è la dinamica su cui si fonda l’influencer marketing: il segmento target si interessa al marchio sponsorizzato proprio perché in primis sente una forte affinità con il personaggio che se ne sta facendo portavoce.

Il rapporto lavorativo tra un influencer e un azienda è di solito di natura breve e si limita a una singola sponsorizzazione, spalmata sulle diverse tipologie di contenuto che il social network di riferimento offre.

L’azienda propone al personaggio una selezione di prodotti in forma gratuita, e l’influencer si incaricherà di testarli e recensirli rimanendo fedele alla propria esperienza personale. Nella maggior parte dei casi quando si collabora con influencer di grosso calibro, di solito con oltre 100 mila follower su almeno una delle piattaforme, una sponsorizzazione in denaro accompagna i prodotti gratuiti. In questo caso il brand può avanzare richieste più specifiche su come presentare il prodotto ai follower, in che modo recensirlo e con quali modalità.

La figura del Brand Ambassador

Come ormai sappiamo, nel marketing digitale esistono tante figure le cui definizioni possono talvolta intersecarsi e fondersi tra di loro. Oltre agli influencer esistono infatti anche i Brand Ambassador, che svolgono un ruolo simile ma non uguale. A dirla tutta potremmo definire gli ambasciatori (o corporate ambassadors) come un’evoluzione dell’influencer “base”. Si tratta di personaggi che incarnano in tutto e per tutto i valori dell’azienda di cui si fanno portavoce, alla quale sono legati da un contratto a lungo termine. Mentre gli influencer vengono ingaggiati una tantum, o a singhiozzi in base alle esigenze del marchio, i brand ambassador stipulano un rapporto lavorativo continuativo che richiede un maggiore impegno, costanza e dedizione, ma che garantisce risultati molto importanti e duraturi da entrambe le parti.

Il brand ambassador non ha più bisogno di direttive da parte dell’azienda su come sponsorizzare il prodotto o servizio, ma saprà valorizzarlo in maniera del tutto spontanea e naturale in quanto abbraccia in toto la filosofia e l’offerta del marchio. In questi casi il contratto tra le due parti si considera esclusivo: se un influencer di fitness e benessere viene assunto da un’azienda di abbigliamento sportivo come ambassador, ne va da sé che non solo non accetterà più collaborazioni con altri competitor per tutta la durata dell’ingaggio, ma utilizzerà i capi del marchio in ogni contenuto idoneo senza farla sembrare una forzatura o una pubblicità esasperata.

Il passaparola dei Brand Advocate

Oltre al supporto di influencer e ambassador, le aziende possono aumentare la brand awareness contando anche su quello importantissimo di un’altra categoria: i Brand Advocate. In questo caso parliamo di persone comuni divenute clienti del marchio che, al fronte di un’esperienza positiva, decidono di dedicare contenuti online al prodotto/servizio in questione. Si tratta di recensioni gratuite il cui impatto non va sottovalutato: chiunque può diventare brand advocate e stimolare la curiosità di amici, conoscenti e contatti vari, tra i quali è destinato a nascere un passaparola in grado di beneficiare l’azienda senza che essa abbia investito attivamente in questa attività.

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Quella del debranding è una strategia di marketing che si sta affermando sempre di più negli ultimi anni, e il trend non accenna a placarsi. Potrebbe diventare a tutti gli effetti la carta vincente per il marketing del futuro. Scopriamo di cosa si tratta.

Cos’è il debranding

Nonostante l’assonanza, il debranding non è da confondere con il noto termine “rebranding“. Mentre in questo caso ci riferiamo a una rivoluzione dell’immagine del marchio, con la parola debranding si intende l’eliminazione del nome del marchio da tutti i canali in cui è presente, partendo dal logo, allo slogan, al sito web. In italiano detta “decorporatizzazione“, questa strategia consiste nel rendere il logo del marchio più facile da approcciare per il grande pubblico. Viste le tendenze degli ultimi tempi ad andare sempre più verso un design minimalista, la scelta di eliminare il nome consente al marchio di aumentare la propria brand awareness in tutto il mondo senza necessità di alcuna parola scritta. Un’altra operazione legata al debranding è quella di accantonare sempre di più font stravaganti e unici, favorendo quelli più lineari ed essenziali.

Sono tanti i grandi marchi che a partire dalla scorsa decade hanno deciso di mettere in atto un debranding importante, primi fra tutti alcuni illustri nomi dell’alta moda quali Balenciaga, Burberry e Yves Saint Laurent che sono passati da un logo con carattere estroso a uno stile minimale e molto simile l’uno all’altro.

Si tratta di un trend che non sappiamo per quanto sarà destinato a durare, tuttavia se i principali esponenti di quest’industria, e di molte altre, l’hanno imboccata come strada, significa che la corrente minimalista non ha intenzione di fare marcia indietro da qui al prossimo decennio.

Il rischio più grosso del debranding è chiaramente la perdita di un’identità propria, facendo sprofondare il marchio nell’abisso dei competitor. Per questo esistono diversi parametri a cui attenersi per capire se la scelta del debranding faccia al caso nostro oppure no.

Quando fare debranding

Fare debranding al proprio marchio è una scelta audace, che richiede uno studio importante al fine di valutare tutte le variabili ed evitare il tracollo. Bisogna tenere in considerazione non soltanto l’età anagrafica dell’azienda, ma anche la sua maturità effettiva e soprattutto percettiva. Come sappiamo, è la percezione del cliente nel confronti del marchio a determinare il suo valore; se nell’immaginario collettivo il brand non è abbastanza forte e affermato, stravolgere il suo look per di più appiattendolo e rendendolo simile a tanti altri non farà altro che stroncare sul nascere qualsiasi possibilità di successo.

Possiamo contare su una personalità vera e propria, riconoscibile e distinguibile de tutte le altre realtà? Il consumatore conosce il marchio? In quale posizione della Piramide di Aaker si inserisce? Ci sono prospettive future solide e tangibili?

Sono queste le domande che bisognerebbe porsi prima di mettere in atto un debranding: in caso di risposte positive a tutti i quesiti, si è pronti per partire, tenendo sempre in considerazione che sì, copiare le strategie di marketing dei colossi del mercato spesso si rivela vincente, ma un solo passo falso può costare la vita all’intera azienda.

Da dove nasce il debranding

Il debranding, pur essendo considerata la strategia del futuro, nasce nella mente dei pubblicitari e dei responsabili marketing negli anni ’80, nel pieno dell’età dell’oro della Grande Distribuzione. Allora si notò che il consumatore, avendo davanti due o più prodotti dalle caratteristiche equivalenti tra di loro, tendeva a scegliere quello “sottomarca” a discapito del colosso del settore, sia nel campo alimentare, che per l’igiene della persona, e così via.

Questo perché, a prescindere dal prezzo leggermente più basso, il marchio meno conosciuto infondeva al consumatore una sensazione di maggior vicinanza, umanità e accessibilità. Nei confronti dei “big”, il pubblico nutriva una sorta di timore reverenziale che ha addirittura avuto il potere di invertire la rotta e incidere sulle vendite, perdendo contro i marchi concorrenti. Un’altra motivazione importante che spingeva il consumatore a compiere determinate scelte era la consapevolezza che i colossi dell’industria dovevano sostenere ingenti spese per le campagne pubblicitarie, e proprio da queste nascevano i sovrapprezzi rispetto alle marche meno conosciute.

In un momento di generale benessere della popolazione, in cui non esisteva l’impellente necessità di risparmiare sui beni primari, queste motivazioni hanno dato l’input a grandi marchi a rivedere la loro immagine partendo appunto dal logo.

Notiamo grandi cambiamenti per esempio nel simbolo di Starbucks, che con il tempo ha eliminato tutti i fronzoli e le scritte, per lasciare la scena all’inconfondibile sirena. O ancora il marchio di automobili tedesco Mercedes-Benz che, dopo essere partito con un logo alquanto complesso e costituito da diversi elementi, è giunto negli ultimi anni alla sua versione più snella e minimale, mantenendo soltanto la stella a tre punte riconosciuta in tutto il mondo.

Ultima ma non per importanza ricordiamo Nike che a metà degli anni ’90 scelse di eliminare il proprio logotipo, mantenendo solo l’iconico simbolo “swoosh“. Da allora la sua identità non solo non ne ha risentito, ma ha avuto il ruolo di vera apripista per un trend che in questo momento sta coinvolgendo tutti i maggiori esponenti del settore. 

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Al fine di elaborare una strategia social vincente è necessario fare un passo indietro e focalizzarsi sul cosiddetto “posizionamento”, ovvero il modo in cui il determinato brand si colloca nella mente del pubblico target.

In questo articolo vedremo per quale motivo il posizionamento è determinante, e come elaborarlo in maniera ottimale.

Cos’è il posizionamento social

Tante aziende tendono a trattare le loro campagne social come semplici piattaforme volte all’intrattenimento, oppure come mere vetrine per inserzioni pubblicitarie.

In questo articolo vi avevamo spiegato come sfruttare le sponsorizzazioni  sui social media al fine di aumentare la popolarità del vostro marchio. 

A nostro avviso, nessuna di queste due direzioni sopracitate è del tutto vincente: una campagna social, per funzionare, ha bisogno di studio alle sue spalle, incentrato su diversi fattori molto importanti e intersecati tra di loro.

L’ideale è riuscire a fondere i due aspetti, in modo che la strategia di social media marketing abbia un ottimo impatto sia dal punto di vista emotivo che commerciale.

La base sulla quale si deve ergere il piano social è una personalità unica del marchio, che sappia distinguersi dal resto dei competitor, andando a proporre al pubblico target un prodotto/servizio inedito, o non ancora visto sotto quella determinata luce. La comunicazione in questo senso risulta ancora una volta fondamentale: non  basta certamente iniziare a postare contenuti sulle proprie pagine social per accertarsi il successo, anzi. Gli standard qualitativi sono sempre più elevati e la concorrenza spietata, senza considerare che il pubblico ha ormai tutti gli strumenti per poter valutare da solo l’impegno di un brand sulle piattaforme social, trattandosi di un tipo di comunicazione molto più personalizzata e diretta rispetto a quella tramite i media tradizionali.

Prima di tutto è necessario rendersi conto che non è possibile rivolgersi a tutto il mercato, ma soltanto a un settore o a una nicchia ben precisa. Individuata quest’ultima, è il momento di chiedersi cosa si voglia comunicare al pubblico target. La risposta a tale domanda costituirà il punto di partenza per l’elaborazione del proprio posizionamento social.

Perché è importante il posizionamento social

Al giorno d’oggi è impossibile per un’azienda sviluppare una strategia di marketing digitale senza destinarne una grossa fetta alla parte social. Questa branca del marketing online svolge un ruolo cruciale nello sviluppo della brand awareness, di cui avevamo parlato nel dettaglio in questo articolo. La brand awareness, ovvero la percezione che il pubblico ha del marchio, è fondamentale per determinare il valore dello stesso, e può essere misurata utilizzando la cosiddetta Piramide di Aaker, un sistema di valutazione ideato dall’omonimo economista all’inizio degli anni 2000.

All’interno della piramide troviamo diversi livelli, corrispondenti ai gradi di notorietà del marchio. Alla base troviamo il gradino “Unaware of brand”, quando un brand risulta totalmente sconosciuto al pubblico, mentre al vertice si trova la “TOM Awareness – Top of Mind“, quando un brand è il primo a essere ricordato dal pubblico tra tutti quelli del suo settore. Tale posizionamento è ciò a cui aspira qualsiasi azienda, perché significa aver superato tutti i competitor ed essere diventati i leader della propria categoria in termini di notorietà.

Capiamo bene che utilizzare i social con cognizione di causa, attuando una strategia ben ponderata e mirata, darà una grande mano affinché il traguardo della TOM Awareness venga raggiunto.

Come elaborare il giusto posizionamento sociali

Abbiamo capito che cos’è il posizionamento social e per quale motivo è così importante. Ora è giunto il momento di scoprire come elaborarlo al meglio. Per identificare il proprio target e di conseguenza stilare una strategia efficiente e suscitarne l’interesse, è necessario innanzitutto conoscere a fondo sé stessi, il marchio e le persone che ne fanno parte. Solo con la piena consapevolezza dei propri punti a favore, delle proprie debolezze, del proprio carattere e dei propri valori si avrà la capacità di attirare il pubblico giusto. Studiarsi è il primissimo passo da compiere verso la creazione di un piano social adeguato, poiché i contenuti dovranno essere in linea con abilità, personalità e filosofia del marchio.

Quali social predilige il pubblico target a cui mi voglio rivolgere? Anche questa è una domanda importante, poiché il pubblico cambia nettamente a seconda dei vari network.

Partendo dal presupposto che ogni piattaforma richiede un approccio diverso, e che ciò che va bene per Instagram quasi certamente non sarà l’ideale per Youtube, dobbiamo studiare accuratamente il panorama nel quale ci stiamo inserendo, per capire come sono posizionati i competitor, qual è il loro modo di esprimersi, che cosa desidera il pubblico e che cosa invece gli manca.

Stilare un vero e proprio identikit del target è una delle parti più importanti per la buona riuscita del posizionamento social: capendo a fondo il soggetto a cui ci stiamo rivolgendo, con le sue preferenze, abitudini, stili di vita, desideri manifesti e inespressi, saremo anche in grado di proporci esattamente come lui ha bisogno di percepirci, fornendo contenuti accattivanti e coinvolgenti.

Ultimo ma non per importanza resta il fattore dell’autenticità: in un mondo saturo in cui spiccare risulta sempre più difficile, l’unica vera arma resta essere sé stessi. Nessun altro potrà mai interpretare il nostro ruolo meglio di noi, perciò, se emulare le scelte di brand più affermati può costituire una strada per il successo, optare per il cammino dell’unicità conferirà a quest’ultimo un sapore ancor più gradito.

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