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In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale permea la nostra vita, imbatterci in imprevisti facilmente evitabili impiegando tutti gli strumenti al meglio non è più una fatalità, ma sintomo di superficialità nella gestione delle nostre attività lavorative. È il caso del fenomeno dell’out of stock, che abbiamo già analizzato a fondo in questo articolo.

C’è chi però, soprattutto ultimamente, ha tentato di sfruttare a proprio favore un episodio spiacevole come quello della rottura di stock, convertendolo in una vera strategia per incrementare le vendite.

Avrà funzionato? Scopriamolo insieme.

In cosa consiste la strategia dello “stock out”

Quella dell’out of stock è una strategia di marketing rischiosa e che, se non adeguatamente messa in atto, rischia di trasformarsi in un batter d’occhio in una pericolosa arma a doppio taglio.

Rivelatasi funzionante soprattutto nell’ambito dei beni di largo consumo quali fast fashion ed elettronica, è importante snocciolarne tutte le caratteristiche e i relativi pro e contro, prima di tirarsi inavvertitamente la zappa sui piedi.

Il concetto principale su cui verte è, infatti, la creazione di “hype” attorno a un determinato bene: un mix di eccitazione, urgenza ed esclusività, innestato nella mente del consumatore di fronte a un prodotto tanto bramato quanto impossibile da avere nell’immediato perché già acquistato da altri X clienti più veloci di lui. Se ne evince che è quindi insensato provare ad attuare questa strategia su beni di prima necessità, o facilmente reperibili in altri punti vendita o eCommerce: sarà come dare in mano ai propri competitor la vendita che ci è appena sfuggita.

Sulle creazioni esclusive, invece, si è dimostrata vincente per spingere il cliente a desiderare un prodotto specifico e sottrarlo alla concorrenza.

Attuare questa tecnica di marketing, spesso significa contrassegnare come esaurita una determinata merce per studiarne l’interesse da parte del consumatore, le sue reazioni e la sua predisposizione ad appuntarsi a mailing list e notifiche per mantenersi informato su futuri aggiornamenti e rifornimenti della stessa.

Cosa non fare nel momento in cui si verifica uno stock out

Nonostante spesso venga deliberatamente utilizzata come tecnica, a volte la rottura di stock ci coglie ancora impreparati. È qui che si dimostrano le abilità di un bravo imprenditore, in grado di destreggiarsi di fronte agli imprevisti e ribaltare la situazione a proprio favore.

Ci sono alcuni errori imperdonabili da non commettere assolutamente nel momento in cui un prodotto risulti esaurito:

Rimuovere completamente il prodotto: che si tratti di un negozio fisico o di un sito web, rimuovere lo spazio o la pagina un tempo destinati ad esso è altamente controproducente. Così facendo si lascia intendere al cliente che non si è più interessati a distribuire la merce in questione o che non esiste nessuna possibilità di un suo rientro in stock.

Non essere chiari riguardo la disponibilità di un prodotto: non sapere, o non essere in grado di comunicare in maniera chiara e semplice le informazioni che si hanno riguardanti la disponibilità della merce, può scoraggiare il cliente dal volerla acquistare ora o in futuro.

Redirigere alla home quando si clicca su un prodotto esaurito: nel caso degli shop online, è opportuno suggerire schede di prodotti similari, le cui caratteristiche possano soddisfare le esigenze del cliente. Stessa cosa vale per l’esperienza negli shop fisici: al fronte di una referenza out of stock, è importante sapere consigliare una valida alternativa che si avvicini il più possibile alle richieste originarie.

Cose intelligenti da fare nel momento di uno stock out

Dopo essere venuti a conoscenza di un non pianificato episodio di out of stock, esistono alcune mosse che possiamo attuare per migliorare la situazione, e soprattutto la percezione di essa agli occhi del consumatore.

Identificare la causa dell’imprevisto e fornire al cliente informazioni dettagliate sulla disponibilità del prodotto. Ci sono diversi motivi, infatti, che possono determinare lo stock out: aver esaurito un prodotto in maniera temporanea (1-4 settimane) per un picco improvviso della domanda, è differente dal non averlo in quanto uscito di produzione.

È anche necessario distinguere una rottura di stock causata dalla stagionalità del prodotto, da una a tempo indefinito causata da problemi tecnici, logistici o commerciali.

Inviare un messaggio o una mail per avvisare del ritorno in stock della merce, non appena si riceve il rifornimento. Una corretta e puntuale comunicazione fidelizza il cliente e lo invoglia a portare a termine quell’acquisto lasciato in sospeso a causa della rottura di stock.

-Un trucchetto utile per gli online shop, inoltre, è quello di aumentare il tempo di preparazione e invio per la merce esaurita solo per brevi lassi di tempo: in questo modo si evita di scoraggiare il cliente di fronte a un out of stock, e si guadagna la vendita pur non avendo disponibilità immediata in magazzino.

-Un altro accorgimento è quello di posizionare la referenza esaurita in fondo alla pagina di navigazione, proponendo prima di essa altri prodotti che possano catturare l’interesse del cliente prima di imbattersi nell’out of stock.

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Con il mondo del commercio al dettaglio in continua evoluzione, non c’è certo da stupirsi che diversi fenomeni a carattere sociologico si siano manifestati di pari passo con i cambiamenti del mercato. Tra questi ricade il cosiddetto “Retail Apocalypse”, ovvero la crisi dei negozi fisici, iniziata alla fine della prima decade degli anni 2000.

Facciamone insieme un’analisi più approfondita.

In cosa consiste il “Retail Apocalypse”

L’espressione, diventata di uso comune nel 2017, fa riferimento alle numerose chiusure di store fisici verificatesi dal 2010 in avanti, in concomitanza con una crisi economica globale e un cambiamento drastico nel comportamento e nelle preferenze dei consumatori.

Nel mondo occidentale, sono gli USA ad aver risentito per primi del fenomeno: basti pensare che tra il 2010 e il 2013, l’afflusso di potenziali clienti è diminuito del 50%, in quanto sempre più persone prediligono gli acquisti online rispetto ai negozi tradizionali.

Nell’anno 2019, il web ha infatti canalizzato ben il 14% delle entrate totali del Paese, e secondo diverse stime questa cifra è destinata a raggiungere il 17,5% entro la fine del 2021.

Dal 2010 a oggi, negli USA sono state abbassate le serrande di più di 12000 negozi soprattutto facenti parte di grandi catene di distribuzione, con un picco in negativo avvenuto nel 2018.

Quali sono le cause del “Retail Apocalypse”?

A scatenare l’”apocalisse” è stata una commistione di fattori, primo fra questi il cambiamento generazionale e di conseguenza la tipologia di clientela.

La giovane generazione Z, quella successiva ai Millennials, preferisce di gran lunga l’ecommerce a discapito del punto vendita fisico, per comodità, rapidità, vastità di scelta e assortimento.

L’esperienza in negozio, infatti, viene spesso percepita come un “dovere”, quindi vissuta malvolentieri e talvolta evitata, così come il tempo impiegato tra viaggio di andata e ritorno e commissione in sé, viene considerato come “sprecato”.

Oltre a essere mutate le modalità di acquisto, si è riscontrato anche un vero e proprio cambiamento nelle preferenze di investimento: se fino a vent’anni fa un cittadino di ceto medio utilizzava le proprie risorse per l’acquisto di beni di largo consumo (come abbigliamento, accessori, elettrodomestici) per accrescere il proprio status all’interno della società, oggi la tendenza è quella di investire in attività quali viaggi, ristoranti e vita sociale.

Ovviamente, non tutte le “colpe” sono da imputare al consumatore. Spesso, una cattiva gestione del punto vendita, con frequenti episodi di rottura di stock, può risultare determinante per il fallimento dell’attività.

Certo, per mantenersi al passo con i tempi è necessario per ogni azienda che si rispetti appoggiarsi a un online store perfettamente funzionante, e la formula che unisce varietà, rapidità, flessibilità e ottima cura dell’esperienza di pre e post vendita, non sempre riesce bene. Ad avere la peggio sono i piccoli negozi, spazzati via dai grandi colossi del low cost e dell’industria fast fashion, che hanno dovuto fare i conti anche con un aumento degli affitti e dell’espansione dei centri commerciali, in cui confluisce molto più facilmente la clientela.

L’inevitabile bancarotta è stato il destino per decine di migliaia di punti vendita, e con la pandemia causata dal COVID-19, ci si aspetta un cospicuo aumento delle dichiarazioni di fallimento.

Il “Retail Apocalypse” avrà conseguenze anche in Italia?

La domanda sorge spontanea, analizzate le cause principali: dovremo scontrarci anche noi con il fenomeno?

La risposta è NI.

In Italia non si verificherà lo stesso identico scenario, ma un qualcosa di simile, complici le differenze strutturali sia a livello sociale che commerciale che ci distinguono dagli USA.

A differenza di quanto avvenuto oltreoceano dove a chiudere sono stati soprattutto i punti vendita facenti parte di grandi catene distributive, nel Bel Paese a essere colpite sono soprattutto le piccole attività. Tra queste, il settore dell’abbigliamento in maniera particolarmente forte. I centri commerciali, invece, sopravvivono e anzi migliorano: fortunatamente, non ci troviamo a far fronte a un eccesso di offerta come avviene in America, e ciò fa sì che l’italiano medio sia ancora affezionato ai servizi e alle esperienze offerte dai grandi centri per lo shopping che costellano il Paese.

Anche la GDO, comunque, ha risentito della crisi generale, passando da 28300 negozi nel 2013, a 25500 nel 2019. Gli unici a essersi mantenuti costanti nella loro progressiva espansione sono stati i discount.

Con la pandemia da COVID-19 a incrementare e intensificare i fattori di rischio per l’economia italiana e non solo, la situazione post 2020 non è di certo rosea. Complice il cambiamento forzato delle modalità di lavoro e spostamento e l’imposizione della cosiddetta “nuova normalità”, solo durante gli ultimi 12 mesi sono stati persi 380 000 posti di lavoro, e si attende un picco in negativo per chiusure e crisi di piccole e medie imprese.

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