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Parlando di marketing è facile fare di tutta l’erba un fascio credendo che si applichi alla stessa maniera in ogni ambito del mercato. In realtà non c’è niente di più sbagliato e, come vedremo in questo articolo, è opportuno suddividere questa disciplina in base alle finalità che persegue e al contesto in cui viene utilizzata. Il marketing sociale è un tipo di strategia ben differente da quella commerciale, scopriamo perché.

Cos’è e di cosa si occupa il marketing sociale

Il marketing sociale si avvale delle stesse tecniche di quello convenzionale, con uno scopo ben diverso. L’obiettivo della campagna non è più la vendita di un bene o servizio appartenente a una determinata azienda, ma la promozione di comportamenti sociali e la loro incentivazione al fine di indurli nell’utente target.

L’obiettivo del marketing sociale è il cambiamento di abitudini e atteggiamenti da parte del singolo, di un gruppo di persone o dell’intera comunità, che verrà spinta verso l’adozione di nuovi comportamenti più responsabili, sani e salutari.

I prodotti attorno ai quali ruota il marketing sociale non sono beni tangibili e materiali, ma idee, valori e visioni differenti della realtà che vengono promosse tramite campagne di informazione e sensibilizzazione. Mettere in evidenza tutti i rischi che uno stile di vita disattento e sregolato può comportare, e presentare i benefici che si otterrebbero dall’integrazione di nuovi comportamenti più responsabili e ponderati, sono i punti chiave di una strategia di social marketing.

A finanziare questo tipo di campagna non sono solamente aziende private come invece accade per il marketing tradizionale, ma anche e soprattutto enti pubblici e associazioni no profit che attingono a tasse e fondi pubblici nel primo caso, e donazioni nel secondo.

Nel marketing sociale, il beneficio viene atteso e riscontrato sul medio e lungo termine, in quanto il target deve avere il tempo di riconoscere, studiare e assimilare i nuovi concetti promulgati dalla campagna, prima di poter essere in grado di mettere in atto un cambiamento drastico nel proprio stile di vita. Tale evoluzione nelle abitudini del pubblico avviene seguendo la cosiddetta teoria dello scambio: il target accetta di cambiare solo se percepisce che il guadagno eguaglia o supera la perdita comportata dall’abbandono di un determinato pensiero, abitudine o usanza.

Le campagne incentrate sulla pericolosità dell’alcool, del fumo, del gioco d’azzardo, delle droghe, sulla prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili, sull’importanza di uno stile di vita ecosostenibile, sulla sensibilizzazione nei confronti delle discriminazioni subite dalle minoranze etniche, rientrano tutte nella macrocategoria del marketing sociale. Il loro piano di azione si basa sulla diffusione di informazioni nuove, accurate e affidabili che possano dissuadere consapevolmente l’utente dall’impiego di comportamenti dannosi e/o scorretti nei confronti del prossimo e che portino a un ampliamento della consapevolezza collettiva.

La differenza tra social marketing e social media marketing

A volte la lingua inglese può trarre in inganno. Bisogna prestare particolare attenzione alla differenza tra social marketing e social media marketing. Se nel primo caso, come abbiamo visto in precedenza, si pone il focus su un contenuto socialmente educativo, volto alla promozione di nuovi concetti, ideali e comportamenti salutari, nel secondo caso l’obiettivo è la vendita di prodotti o servizi strutturata nello specifico sui social network.

Il social media marketing fa pertanto sempre parte del marketing convenzionale, il quale si rivolge a un target passivo a cui si desidera influenzare le abitudini di acquisto.

Anche il marketing sociale può tuttavia avvalersi di strategie sviluppate sui social network come Instagram, Facebook, Youtube, Tiktok e Twitter, senza perdere di vista i propri obiettivi. In questo caso, le inserzioni saranno di tipo interattivo e spingeranno gli utenti a partecipare a determinate iniziative, eventi o raccolte fondi, invece che passivamente entrare in contatto con un nuovo prodotto da aggiungere nella propria lista degli acquisti.

Esistono poi delle eccezioni alla regola, che affiancano al marketing sociale prettamente divulgativo e informativo anche dei veri propri prodotti e servizi concreti e acquistabili, che possano facilitare il cambiamento comportamentale nella società.

Un esempio potrebbero essere i gruppi di sostegno antifumo, o di supporto a coloro che soffrono di problemi di alcolismo, o ancora un’affiliazione con palestre locali per promuovere la lotta contro l’obesità.

Il social marketing utilizzato dalle aziende

Finora abbiamo parlato del marketing sociale soltanto dal punto di vista teorico e messo in atto da istituzioni pubbliche o associazioni no profit, ma sarebbe sbagliato non sottolineare l’importanza di questa strategia quando adottata dalle aziende stesse.

Attraverso il social marketing, infatti, le imprese prendono attivamente posizione riguardo tematiche sensibili e dimostrano al pubblico un impegno verso cause di utilità collettiva. Il tutto viene attuato secondo una prospettiva di miglioramento della CSR, ovvero la responsabilità volontaria che l’azienda si assume nei confronti degli stakeholder (di cui abbiamo parlato qui), primi fra tutti i propri clienti.

Un esempio concreto è l’organizzazione di eventi e raccolte fondi a favore di enti benefici a cui verrà donato l’intero ricavato del progetto: in questo modo non è solo la comunità a beneficiarne, ma anche la brand image dell’azienda, che guadagna credibilità e affidabilità agli occhi del grande pubblico, aumentando di riflesso anche il venduto e il profitto.

L’azienda italiana Ferrarelle è dal 2007 sostenitrice di Unicef, con il quale ha organizzato numerose iniziative per inserire e rinnovare i sistemi idrici e i servizi igienici in Ciad ed Eritrea, guadagnando così un incremento delle vendite del 3,2% e un 15,8% di frequenza di acquisto della marca.

A livello internazionale, un brand da anni impegnato nella promozione di cambiamenti sociali è Dove che sostiene, in collaborazione con diverse associazioni, l’ascolto e la cura al disagio psicologico provocato dai disturbi alimentari e d’immagine.

Un’iniziativa di tale portata ha dato i propri frutti sul lungo termine quando, nel 2015, l’azienda è giunta al primo posto della classifica AdAge, all’interno della quale compaiono le 15 migliori campagne di social marketing realizzate nel ventunesimo secolo.

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Potreste aver sentito parlare di tribal marketing ed essere stati catapultati con la mente a popolazioni indigene di terre incontaminate. Il concetto sul quale si fonda questa specifica strategia di marketing si discosta leggermente dall’idea di comunità che potrebbe esserci sorta di primo acchito. Vediamo quindi di cosa si tratta, come sfruttarla e qualche esempio pratico del suo impiego.

Definizione di marketing tribale

Michel Maffesoli fu il primo studioso a teorizzare il tribalismo nascente dalla post modernità: in un’era di globalizzazione mondiale, in cui tutto diventa accessibile, veloce e talvolta caotico, l’individuo ricerca intimità, legami veri e comunitari.

Su tali concetti si ergono le basi della strategia del marketing tribale, che mira a creare e sostenere le cosiddette “tribù di consumo”, i cui partecipanti nutrono una profonda affinità tra di loro e con il prodotto che si sta promuovendo.

All’inizio degli anni 2000 e a seguito dell’avvento dei social network, il sociologo Bernard Cova scrive il proprio libro intitolato “Il marketing tribale”, nel quale illustra le caratteristiche, lo svolgimento e l’applicazione di tale teoria, ampiamente sfruttata dalle multinazionali delle più svariate categorie merceologiche, e prettamente fondata sulle dinamiche social.

A differenza del marketing personalizzato, in voga negli anni ’80 e ’90, il marketing tribale non pone tanto l’attenzione sul rapporto azienda-consumatore, quanto principalmente su quello consumatore-consumatore. Le tribù infatti sono eterogenee, composte da utenti provenienti da zone geografiche, ceti sociali, contesti politici e religiosi ben differenti, ciò che li unisce è solo e soltanto la passione e l’interesse verso un dato prodotto, marchio o servizio.

Come fare marketing tribale

Avevamo già parlato in questo articolo della tecnica di green marketing, negli ultimi anni molto sfruttata dalle aziende non soltanto multinazionali ma anche locali, per aumentare la propria visibilità e la fidelizzazione del pubblico. Anche la strategia del tribal marketing può dare senza dubbio risultati sorprendenti per il proprio brand, ma è necessario seguire alcune linee guida al fine di applicarlo nel miglior modo possibile.

La prima cosa da fare è l’individuazione di tribù già esistenti, che potrebbero potenzialmente legarsi al marchio e iniziare a dimostrare un forte interesse nei suoi confronti, attirando l’attenzione di altrettanti utenti. Per farlo è necessario ricercare immagini, luoghi specifici, oggetti e parole provenienti dal gergo specifico della tribù.

Completato questo passaggio preliminare, si può passare al consolidamento dei legami dei membri, unendoli ancora di più e facendo sì che la loro passione per il prodotto proposto si espanda, creando un senso di appartenenza e di identificazione tra i membri.

Uno stato di coesione, calore e unità all’interno della tribù si ottiene anche e soprattutto fornendo ai componenti contenuti sempre nuovi e di qualità che loro stessi possano condividere con il prossimo e col mondo intero.

Da tale raggiungimento, l’azienda può finalmente iniziare a trarre attivamente vantaggio dalla tribù, estrapolandone le competenze, i suggerimenti e le esperienze al fine di metterle poi in pratica a livello commerciale. Gli stessi membri della comunità si fanno pertanto portatori di messaggi e divulgatori: il passaparola è uno strumento importantissimo tramite il quale i brand si espandono, accrescono la propria reputazione e attirano nuovi clienti.

Per far sì che gli utenti si facciano carico questa responsabilità il brand deve risultare estremamente coerente con i propri messaggi, le cause che supporta, e saper comunicare un’identità ben definita con la quale i consumatori possano identificarsi. Al giorno d’oggi, infatti, le persone sono in cerca di forme di aggregazione nuove, non legate ai tradizionali concetti di etnia, territorialità, politica o religione.

Il marketing tribale è lo strumento perfetto per la creazione di gruppi coesi, attivi e appassionati a un’unica tematica: il prodotto proposto dal marchio.

Esempi di marketing tribale

Con l’adozione del tribal marketing su larga scala, si sono venute a formare le cosiddette Brand Communities, ovvero quelle comunità online specializzate in un determinato prodotto o marchio, e che creano comunicazione diretta tra gli utenti.

Nelle Brand Communities, i partecipanti si scambiano consigli, esperienze, foto e recensioni e grazie a questa continua interazione l’azienda stessa può trarre nuovi spunti per prodotti, campagne e migliorie.

Un esempio lampante di queste comunità sono le pagine Instagram dedicate a degli specifici brand di abbigliamento internazionali: multinazionali come Zara ed H&M per esempio godono di tantissime pagine create dai propri supporters, in cui vengono pubblicati quotidianamente contenuti riguardanti le nuove collezioni ed eventuali offerte in corso.

Tali pagine vengono seguite con scrupolo dagli amministratori che condividono con i follower link diretti per l’acquisto e referenze dettagliate dei prodotti, favorendo l’espansione delle aziende grazie al loro senso di appartenenza alla community.

Alcuni esempi di marketing tribale nel panorama internazionale sono: Harley Davidson, GoPro, Starbucks ed Apple.

Il primo vero e proprio fenomeno di Marketing Tribale è da attribuirsi ad Harley Davidson: il motociclista si sente a tutti gli effetti parte di un gruppo ben definito e con determinate caratteristiche, diverso da tutti gli altri. Sono famosi i raduni ma anche i siti e le pagine dedicate ai fan del brand; il motto dell’Harleysta è All for Freedom, Freedom for All.

GoPro è stata la capostipite nell’ambito delle videocamere indossabili e coloro che vi sono fedeli sin dal principio si riconoscono come parte di una tribù, sostenendosi a vicenda sui social grazie a menzioni e condivisioni.

Starbucks è la catena di food & beverage più cool di tutto l’occidente: ogni grande città europea e nord americana vanta almeno un punto vendita del brand. Giovane, alla moda, dinamico, Starbucks è riuscito alla grande nell’impresa del tribal marketing, catturando l’attenzione delle più disparate tipologie di clientela, facendola convergere nei propri locali.

Ultimo esempio, ma non per importanza è di certo il colosso Apple. Nel mondo della tecnologia è ormai risaputo: gli utenti si classificano in base al brand da cui hanno deciso di acquistare il proprio telefono cellulare. In poche parole, si può far parte del team Ios oppure rimanere nell’oblio delle numerose altre marche di smartphone, senza riconoscersi con nessuna comunità a loro associata.

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Al giorno d’oggi, la sostenibilità non costituisce più soltanto un valore aggiunto all’azienda che la persegue, ma si sta convertendo nel focus di tantissime imprese che si avvalgono di pratiche di green marketing. L’attenzione nei confronti dell’ambiente e del pianeta in cui viviamo, infatti, costituisce un punto cardine attorno al quale gravitano le strategie di marketing delle imprese più lungimiranti, che ne traggono anche profitto dal punto di vista della brand image e della CSR. Scopriamo come e perché.

Cos’è il green marketing

Il green marketing, detto altrimenti anche environmental marketing o marketing sostenibile, è costituito da tutte quelle strategie attuate dall’azienda per migliorare la sostenibilità ambientale, tutelare l’ecosistema e proteggere la flora e la fauna spesso devastate a causa dell’impatto dell’uomo.

Negli ultimi decenni, fortunatamente, la consapevolezza collettiva rispetto all’immenso danno che l’attività umana continua a causare sul pianeta Terra è aumentata, e di conseguenza le tecniche di marketing si sono rinnovate e adeguate.

L’impegno a praticare green marketing si fonda sui concetti intersecati di restituzione e responsabilità: il primo si riferisce all’interruzione di tutte le pratiche nocive adottate in passato dall’azienda, iniziando piano piano il processo inverso. Questo ideale si applica specialmente a imprese longeve, che nelle decadi passate avevano investito su metodi di produzione, trasporto e imballaggio non sostenibili e deleteri per l’ambiente.

Il concetto di responsabilità, invece, fa riferimento in particolar modo alle startup e ai business appena nati, che possono cogliere la grande opportunità di allineare fin da subito i propri valori di etica, rispetto e sostenibilità con le azioni concrete di messa sul mercato.

Un ideale ben radicato è fondamentale quando si sceglie di avvalersi del green marketing: trasmettere coerenza, trasparenza e concretezza al proprio pubblico fa sì che il progetto venga accolto nel migliore dei modi, ispirando il target ad attuare esso stesso dei comportamenti e delle azioni migliorative nella vita di tutti i giorni.

Come fare green marketing in maniera concreta

Una volta definiti i propri ideali, quali sono le linee guida da seguire per fare green marketing? Le iniziative da poter mettere in atto singolarmente o, ancora meglio, massivamente, sono tante.

La sostenibilità, infatti, può essere legata al processo di realizzazione dei prodotti commercializzati, al beneficio che ne trarrà il cliente finale o all’organizzazione di progetti di beneficenza, tutela o riduzione dell’impatto ambientale.

Educare e trasmettere questi valori al proprio personale è un’altra scelta proficua per le aziende che, così facendo, radicano ancor di più la propria mission nel cuore dell’impresa, costituito da coloro che la rendono possibile e che a loro volta promulgheranno nella vita di tutti i giorni messaggi positivi e di sostenibilità.

Indire e sostenere progetti quali la riforestazione, la rimozione dei rifiuti dalle spiagge, la tutela degli habitat e delle specie in via d’estinzione, sono altre idee per le aziende desiderose di fare green marketing.

L’ultimo baluardo, che unisce il marketing sostenibile con il marketing sociale (di cui abbiamo già parlato in questo articolo), è il mettersi in moto come divulgatori del messaggio etico, fornendo informazioni, approfondimenti e favorendo un aumento della consapevolezza da parte del proprio target nei confronti della tematica eco friendly.

Quest’ultima pratica in particolar modo, ma anche quelle precedentemente citate, se non portata avanti con coerenza e trasparenza, può costituire una vera e propria arma a doppio taglio per l’azienda. Diffondere dati non accurati e informazioni solo parzialmente vere può costare caro non solo in termini di reputazione e credibilità, ma anche a livello monetario.

Non sono rari infatti gli esempi di grandi brand multati a causa di pubblicità ingannevoli riguardo la natura biodegradabile e riciclabile dei loro packaging e dello smaltimento responsabile dei loro rifiuti.

Questa pratica di finto ambientalismo viene denominata in gergo “greenwashing“.

Cos’è il greenwashing e quali rischi comporta

Come abbiamo visto, la sostenibilità ambientale non è soltanto una necessità concreta per salvaguardare il nostro pianeta ormai martoriato dalle azioni dell’uomo, ma anche una carta vincente che le aziende sfoderano per attirare consensi e dimostrarsi attente, impegnate e lungimiranti agli occhi del pubblico.

Ovviamente, anche in questo ambito non mancano coloro che per ottenere l’approvazione millantano l’impiego di tecniche ecosostenibili, la riduzione dell’utilizzo della plastica, minori emissioni di Co2, il rispetto delle condizioni dei lavoratori, quando la realtà dei fatti si è ben presto dimostrata lontanissima da tali affermazioni.

Il greenwashing è una pratica fuorviante che può arrivare a trasformarsi in reato condannando le aziende che se ne sono avvalse a pagare multe davvero salate. Oltre all’impatto monetario, l’ambientalismo di facciata, quando portato alla luce, comporta anche la gogna mediatica con conseguente perdita di reputazione e di vendite.

Alcuni esempi tutti italiani hanno riguardato diverse marche di acqua in bottiglia, colpevoli di aver spacciato i propri imballaggi come “ecofriendly” e “attenti all’ambiente” dichiarando cifre false riguardo al contenuto di effettiva plastica riciclata al loro interno.

Spostandoci a livello internazionale, proprio nel 2021 è emerso come il colosso del fast fashion H&M abbia falsificato ben il 96% dei rapporti riguardanti la propria linea di abbigliamento “Conscious”, ovvero suppostamente attenta all’ambiente e rispettosa dei lavoratori.

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