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Il marketing odierno non sarebbe lo stesso senza la presenza degli influencer: personaggi di spicco che condividono le loro esperienze di vita sui social network, influenzando le esperienze di acquisto degli utenti.

Ma oramai lo sappiamo, la tecnologia si evolve sempre più velocemente ed è necessario restare al passo; con l’avvento del metaverso, anche la figura degli influencer è destinata a subire una trasformazione, diventando virtuale. Scopriamo quindi insieme chi sono i Virtual Influencer e cosa fanno.

Cos’è il metaverso

Partiamo dalle basi: prima di addentrarci nell’analisi del fenomeno degli influencer virtuali, è necessario dare una definizione (o per lo meno tentare) al famigerato metaverso. Questo termine, coniato nel 1992 dall’autore Neal Stephenson, fa riferimento a un mondo virtuale che si appoggia a internet per il proprio funzionamento. Nel 2021, tale visione risalente a ben 30 anni prima prende finalmente forma grazie al progetto di Zuckerberg, che ha dapprima cambiato il nome di Facebook in Meta, per poi lanciare il proprio Metaverso. Uno spazio virtuale immersivo, ben diverso da un’attività ludica o da un videogioco, ma una vera e propria piattaforma in cui è possibile partecipare a esperienze “reali” senza mettere piede fuori di casa. Nel metaverso si può infatti prendere parte a pranzi e cene con amici, andare in discoteca, assistere a eventi pubblici, concerti e manifestazioni, provare sport estremi e anche avere relazioni con altri individui. Per entrare nel metaverso è necessaria la creazione di un proprio avatar, che interagirà con tutti gli altri presenti nel mondo virtuale. Chiunque può accedervi, basta semplicemente avere a disposizione una connessione internet e un dispositivo idoneo a questo tipo di esperienza.

Il metaverso cela un potenziale sconfinato sin dalla sua ideazione oramai decenni fa: tantissimi imprenditori, società e personaggi famosi stanno infatti già investendo parte del loro capitale in questa mondo alternativo, vista la prospettiva per il prossimo futuro secondo la quale tutto, ma proprio tutto, sarà dotato della propria rappresentazione virtuale. Luoghi, persone, marchi, imprese esisteranno anche nel metaverso. La stessa cosa vale per il fenomeno degli influencer, ora come ora molto attivi su piattaforme come Instagram, Tik Tok e Youtube, ma che ben presto dovranno “trasferirsi” o per lo meno insediare il proprio avatar anche nella realtà sintetica.

Chi sono e cosa fanno i Virtual Influencer

Negli ultimi due anni gli assetti economici, sociali e comportamentali dell’intera popolazione mondiale sono profondamente cambiati.

In un momento in cui il mondo esterno costituiva una minaccia, è stata intensificata la presenza online, portando alla creazione di realtà virtuali oramai già consolidate. I primissimi virtual influencer sono nati nel 2020 in Asia, dove il fenomeno è diventato in pochissimo tempo virale, e costituiscono oggi un punto di riferimento non soltanto per gli utenti ma anche per le aziende con cui collaborano. Si tratta di rappresentazioni sintetiche di persone realizzate da squadre di designer e professionisti del web marketing, appellandosi ai canoni estetici attualmente in vigore nel Paese di provenienza. Se alcune volte questi avatar vengono realizzati utilizzando modelli umani a cui vengono poi cambiati i connotati, in altre occasioni la produzione è al 100% computerizzata.

Prima ancora di spostarsi totalmente nel metaverso, i virtual influencer lavorano su Instagram, il social network al momento più gettonato e redditizio, dove condividono scatti della propria “quotidianità”, sponsorizzano prodotti e si fanno portavoce di cause sociali importanti e in linea con la loro filosofia, precedentemente delineata dai creatori.

Sono numerosi i VI (detti anche CGI – Computer Generated Imagery) che stanno riscuotendo successo sui social, non soltanto in Asia ma anche in occidente: prendiamo per esempio Imma, la più celebre in Giappone, Rosie in Corea, Lil Miquela da Los Angeles o Shudu, originaria del Sudafrica. Se le prime due sono influencer di lifestyle, Lil Miquela con i suoi 3 milioni di follower è un’attivista impegnata nella causa del black lives matter, mentre Shudu, oltre a essere la primissima top model digitale, si impegna nel supporto della comunità di donne colore.

Accanto al lavoro di sponsorizzazione per i brand, i virtual influencer svolgono anche ruoli di portavoce sociali, sfruttati da organizzazioni mondiali come l’OMS che, durante il periodo della pandemia, utilizzò apertamente il VI ventenne Knox Frost per veicolare messaggi sulla sicurezza e la prevenzione. Tutti quelli sopracitati sono perfetti esempi dell’evoluzione il marketing ha attraversando, passando da una natura transazionale a una relazionale. In questo articolo avevamo approfondito la tematica.

Nonostante in Italia il fenomeno sia ancora in via di sviluppo, a dicembre 2021 è nata una delle prime realtà di virtual influncer dal genio di tre ragazzi torinesi: la loro creazione, Nefele, dall’aspetto volutamente gender fluid, cerca di abbattere tutti gli stereotipi legati all’aspetto fisico e all’orientamento sessuale, facendo dei propri “difetti” dei punti di forza, e della propria ambiguità un’identità ben definita. Nefele non ha ancora raggiunto numeri strabilianti, ma certamente il successo non tarderà ad arrivare.

Pro e contro dei Virtul Influencer

I virtual influencer costituiscono un grandissimo vantaggio per le aziende che decidono di ingaggiarli. Questi avatar virtuali abbattono infatti ogni barriera legata a orari, distanza geografiaca, agenda e appuntamenti, e sono disponibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Oltre alle questioni prettamente pratiche, non sono da sottovalutare nemmeno i numerosi pro legati alla mancanza di componente umana in questi influencer: tutti gli aspetti negativi legati a imprevisti, equivoci e lamentele viene bypassata, lasciando spazio soltanto al lavoro vero e proprio, svolto in maniera professionale e senza intoppi.

Nonostante gli influencer in carne e ossa costituiscano un’enorme risorsa per le aziende, non sono rari gli episodi legati a scandali sessuali, politici, o a scivoloni che tradiscono le cause che la persona era stata ingaggiata per sostenere. Scegliendo come portavoce un influencer virtuale non si rischia di incorre in eventuali danni alla reputazione del brand, né in scheletri nell’armadio misteriosamente riapparsi proprio nei momenti meno opportuni.

Il mercato dei virtual influencer, per quanto ancora neonato, ha già generato nel solo 2021 un fatturato di 13,8 miliardi di dollari, cifra destinata a salire esponenzialmente nei prossimi anni.

Se da una parte troviamo tutta una serie di vantaggi, dall’altra dobbiamo fare i conti con la pericolosità che un mondo totalmente virtuale, percepito però come reale, possa comportare. L’eventualità di imbattersi in malintenzionati e catfish è reale ed è necessario mantenersi in guardia. Per questo motivo gli sviluppatori del metaverso sono già all’opera nella creazione di un quadro etico da rispettare, che garantisca trasparenza e regolamenti le attività consentite in questo mondo alternativo.

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Tra le numerose teorie comportamentali applicate al marketing nell’ultimo decennio, troviamo quella del “nudging”, ossia della sottile persuasione. L’utente, l’acquirente o il cittadino vengono delicatamente indirizzati verso il compimento di un’azione predeterminata senza far loro percepire la minima obbligazione. Scopriamo di più sul nudge marketing e come sfruttarlo in ambito di web marketing.

Cos’è il nudging

La strategia basata sui nudge (in italiano letteralmente “piccole spinte”) si appella alla psicologia e in particolare alla behavioural economy per portare il soggetto a prendere decisioni prevedibili e precedentemente delineate, semplificando e snellendo i pattern mentali necessari per giungere a una scelta autonoma. Vengono utilizzati dei rinforzi positivi celati che facilitano alla persona il processo decisionale, spesso fonte di agitazione, ansia, stress e pentimento. I comportamenti vengono quindi modificati in maniera del tutto volontaria: non si tratta di manipolazione, ma di una “linea guida” proposta con lo scopo di alleggerire il peso mentale della persona, e di spingerla a compiere azioni più consapevoli nei riguardi di sé stessa o dell’ambiente circostante.

Il nudging funziona proprio perché non impone un cambiamento radicale senza possibilità di scelta, ma modifica la cosiddetta architettura decisionale in modo che l’utente scelga autonomamente la strada prefissata da chi mette in atto la strategia, sia con finalità sociali che economiche. Stimolando i processi mentali relativi alla scelta desiderata e cambiando l’offerta dell’ambiente, si gettano le basi per un approccio di nudging sottile e persuasivo.

I primi a esporre la teoria del nudging furono Cass Sunstein (studioso di diritto) e Richard Thaler (economista), agli inizi degli anni ‘2000. Entrambi si confermarono successivamente come personalità di spicco nel mondo dell’economia e della finanza, partecipando addirittura a un’iniziativa del 2015 del presidente Obama sull’adozione delle scienze comportamentali, e quindi del nudging, in ambito politico, economico e governativo.

Prima che al termine nudging venisse conferito il significato attuale, lo stesso schema veniva riportato come “paternalismo libertario“. Una definizione diversa per indicare la medesima strategia: al soggetto viene data la libertà di scegliere per sé (da qui l’aggettivo libertario), ma sotto la guida attenta di chi sa cos’è meglio per lui (il cosiddetto paternalismo).

Libertà e guida sono i due pilastri fondamentali che danno vita alla teoria del nudge.

Quali sono gli obiettivi del nudging

La teoria del nudge si è rivelata estremamente utile ed è ben presto giunto il momento di traslarla dal piano astratto a quello pratico, facendo leva su tecniche cognitive e di neuromarketing. Talvolta le azioni di nudging sono talmente sottili o intrinseche da parte delle aziende o società, che è persino complicato riuscire a identificare la linea di separazione tra identità e tecnica di marketing.

Secondo la teoria, in quanto esseri umani disponiamo di due sistemi di pensiero opposti tra di loro: da una parte troviamo il Sistema 1, quello più veloce, intuitivo, che non richiede ragionamento e che spesse volte incappa nell’errore. Dall’altra il Sistema 2, più razionale, lento a processare e incentrato sul pensiero critico. Sappiamo anche che per indole siamo più propensi a scegliere tutto ciò che è comodo e facile da ottenere (sistema 1), cercando di evitare la fatica che un ragionamento più complesso potrebbe comportare (sistema 2). Da qui nasce l’applicazione del nudging nell’ambito del marketing: sfruttando la suddetta verità, le aziende indirizzano i clienti verso determinate scelte, premiandoli con un’esperienza di acquisto semplice, intuitiva e senza stress.

Tuttavia, lo scopo del nudge marketing non è e non può essere il mero incremento delle vendite, quanto piuttosto un maggior benessere del consumatore. Un’esperienza d’acquisto ottimizzata porta inevitabilmente a un ampliamento della brand awareness, di cui avevamo parlato nel dettaglio qui.

Calcare troppo la mano con azioni di nudging, infatti, sortirebbe l’effetto esattamente contrario: per natura l’uomo non accetta di buon grado di essere comandato, o per lo meno non in maniera esplicita e diretta.

Per poter funzionare, una strategia di nudging richiede tre requisiti fondamentali da parte del soggetto: che abbia i mezzi e le capacità per portare a termine l’azione richiesta, che sia motivato a farlo e che possa recepire uno stimolo che scateni l’azione “consigliata”. Tutto questo presuppone una conoscenza approfondita del proprio target, basata su ricerche, monitoraggi e raccolta di dati.

Come si applica il nudge marketing

Dopo aver sviscerato la teoria e aver compreso i reali motivi che stanno dietro una strategia di nudging, è giunto il momento di capire come sia possibile metterlo in pratica. Dal marketing offline a quello online, quelle veicolate dal nudge marketing sono sempre scelte implicite e scontate, che il soggetto attua volontariamente.

Se si è titolari di uno store fisico, avere cura di etichettare tutta la propria merce, indicandovi le caratteristiche di ogni prodotto e possibilmente mettendo in risalto ciò che lo contraddistingue della concorrenza, costituisce di per sé un’azione di nudging tra le più basilari. Un produttore che metta in commercio una tipologia di prodotto con meno calorie e grassi rispetto alla concorrenza può trarre benefico dall’indicare in maniera chiara sull’etichetta i valori nutrizionali che rendono il prodotto migliore degli altri. La scelta implicita compiuta da un consumatore attento alla linea, o interessato al dimagrimento, è l’acquisto del prodotto a discapito di tutti i competitor.

Se invece si possiede un ecommerce, il nudge marketing avrà a che fare con l’ottimizzazione di tutti i processi di navigazione. Badge, etichette, pop up, overlays che appaiono al momento giusto possono fare la differenza: attenzione però a non esagerare, rendendo più difficile l’esperienza del consumatore.

Un esempio di nudge nella fase del checkout è, banalmente, la spedizione gratuita, oppure una sola opzione di pagamento possibile, in modo che l’utente non debba spendere nemmeno una manciata di secondi a scegliere quale utilizzare. Anche il famoso “one click checkout” di Amazon, che snellisce al massimo il processo alleviando il “dolore da pagamento” che diversi passaggi possono instillare al cliente, è un ottimo esempio di nudge marketing di successo. Quest’ultimo, applicato alle vendite online, è volto all’incremento dell’autonomia degli utenti nell’esperienza di navigazione, grazie a sezioni dedicate e personalizzate come le classiche “I tuoi preferiti”, “Suggeriti per te”, oppure “Abbinalo con…”. Anche in questo caso, il cliente avrà soltanto l’impressione di stare scegliendo ciò che desidera, quando concretamente lo sta facendo tra le opzioni che il venditore ha deciso deliberatamente di proporgli.

Parlando di tematiche sociali, sono numerosissime le iniziative promosse a livello globale che hanno mostrato notevoli risultati: prima fra tutte una campagna di sensibilizzazione contro l’inquinamento da mozziconi di sigaretta. Nel Regno Unito sono stati installati diversi bidoni della spazzatura trasparenti, uno con su scritto Ronaldo, e l’altro con la scritta Messi. Al di sopra dei cestini appariva la scritta “Vota il miglior giocatore di calcio al mondo”. I passanti venivano così spinti in maniera ludica, divertente e per nulla forzata a depositare le proprie cicche all’interno dei bidoni per votare il calciatore, invece di gettarle a terra. In poco più di 4 mesi venne riscontrato un 46% in meno di mozziconi in strada nelle aree soggette all’esperimento. Lo stesso venne fatto in USA, con un miglioramento del 74% in 6 mesi.

La tecnica sopracitata, oltre al nudging, mette anche in pratica un’altra strategia di marketing molto in voga: quella della gamification. Scopri di cosa si tratta qui.

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