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In televisione, sui giornali, sul web: si sente spesso parlare di Grande Distribuzione, ma sappiamo realmente cosa significa questo termine? Si tratta di una realtà ben consolidata all’interno delle nostre vite, che costituisce una vera e propria colonna portante per le dinamiche commerciali moderne. Scopriamone insieme le caratteristiche, l’evoluzione e le strategie per riuscire a farne parte.

GDO e GDS: di cosa si tratta e come si suddividono

La Grande Distribuzione Organizzata, per definizione, consiste in un’associazione di esercenti indipendenti che decidono di esprimersi sotto una medesima insegna, come fanno ad esempio Esselunga, Coop, Carrefour e Lidl.

Tale organizzazione si occupa della vendita di beni di largo consumo rivolta ai clienti privati, occupando aree commerciali superiori ai 200 m².

In base ai parametri di dimensione (superficie di vendita in m²), ampiezza (numero di prodotti che possono essere contenuti), profondità (numero di referenze per prodotto) i punti vendita della GDO assumono nomenclature diverse. Nonostante le definizioni universali che possiamo trovare all’interno del glossario della GDO, è importante sottolineare che ogni attore nel campo denomina i propri store basandosi su linee guida interne, spesso differenti dalla concorrenza.

La suddivisione più comune comprende:

-Supermercati: negozi dalla superficie superiore ai 400m².

Ipermercati: si espandono su oltre 2500m².

-Discount: solitamente di dimensione variabile tra i 200 e i 1000m², a differenza dei due precedenti possono contenere solo una selezione limitata sia di prodotti che di referenze.

-Cash&Carry: un sistema di vendita all’ingrosso rivolto esclusivamente ai commercianti.

-Libero servizio: si tratta delle classiche attività di vicinato, impostate come veri e propri supermercati ma con dimensioni, ampiezza e profondità estremamente limitate.

Se GDO è un acronimo a cui ormai abbiamo fatto l’abitudine, GDS potrebbe mandarci in confusione. La Grande Distribuzione Specializzata mantiene le stesse caratteristiche della GDO, concentrandosi però su un unico settore merceologico, e affermandosi come leader nello stesso. Alcuni esempi sono l’elettronica, il fai da te, i prodotti biologici e gli accessori per la casa: tra i marchi più conosciuti troviamo infatti Naturasì, Acqua&Sapone, Euronics e Bricoman.

Per scoprire più nel dettaglio quali sono le ulteriori classificazioni dei punti vendita della GDO, consulta il nostro articolo di approfondimento.

Primi passi per debuttare in GDO: buyer, target e buyer personas

Per entrare nel mondo della GDO, non solo è necessaria una buona conoscenza del prodotto che offriamo, ma anche delle figure cardine di questo mondo, prima fra tutte quella del buyer.

Il buyer professionale è colui che si incarica dell’acquisto di beni o servizi da parte dei produttori o fornitori. È con lui che ci troveremo ad avere a che fare quando saremo pronti a compiere il grande salto verso la GDO.

Se ancora brancoliamo nel buio senza avere un’idea di chi sia il nostro cliente ideale, è perché ancora non abbiamo acquisito alcune nozioni fondamentali.

Il gruppo di consumatori al quale ci rivolgiamo viene denominato “target”… ma come individuarlo?

Molto banalmente, tramite ricerche e analisi di mercato. Più nello specifico, utilizzando la tecnica della segmentazione, ovvero la suddivisione del panorama secondo uno o più parametri da noi determinati. Ogni gruppo di potenziali clienti avrà caratteristiche comuni, ed altre differenti: sarà tramite lo studio dei loro comportamenti che saremo in grado di risalire al target specifico al quale ci vogliamo rivolgere con il nostro prodotto, le cui peculiarità andranno a soddisfare perfettamente la richiesta del consumatore. Questa particolare operazione viene detta targeting.

Esiste infine uno strumento ancora più preciso, che consente alle aziende di creare le proprie campagne di comunicazione e marketing ad hoc: la creazione delle buyer personas.

Nel gergo commerciale, ci si riferisce a un utente singolo virtuale, progettato in base alle ricerche sopracitate, che rispecchi esattamente il profilo del cliente a cui ci si rivolge.

Per approfondire l’argomento buyer leggi questo articolo.

Come entrare in GDO con il giusto posizionamento del prodotto

Quando si decide di “lanciarsi” nel mondo della GDO, sorge spontaneo nella mente dell’imprenditore un grande interrogativo: come fare? Come muoversi in una realtà così satura e sanguinosa?

Se siamo sicuri di poter fronteggiare l’esponenziale aumento di domanda che la GDO comporta, il primo masso da compiere è la scelta del giusto compratore: sarà uno spreco di tempo ed energia, provare a inserire il brand all’interno di una catena distributiva con caratteristiche e filosofia agli antipodi delle nostre.

Dopo una scrematura iniziale, è il momento di presentarsi ai potenziali acquirenti: per farlo in maniera corretta e professionale, dobbiamo accertarci di aver realizzato del materiale informativo riguardante la nostra azienda, il nostro prodotto e il nostro concept, che sia chiaro, conciso ed esaustivo. Dobbiamo essere in grado di dare l’idea di azienda salda, ben organizzata ed efficiente. I grandi attori della GDO, infatti, accolgono con piacere le novità, ma non hanno tempo da perdere con fornitori inaffidabili o inesperti.

Se fino a trent’anni fa, il mercato dava spazio a chiunque decidesse di inserirvisi, oggi giorno pullula letteralmente di ogni genere di bene e servizio. Ne evinciamo quindi che per poterne far parte in maniera proficua, dobbiamo far affidamento a strategie diverse da quelle attuate da coloro che già lo popolano da decenni.

Proporre un prodotto di buona qualità a un prezzo concorrenziale, in un oceano di alternative dalle stesse identiche caratteristiche, corrisponde a un suicidio per il piccolo imprenditore che con molta probabilità non riuscirà a tenere testa alle grandi marche nazionali.

Al contrario, mirare all’inserimento in un mercato di nicchia, per definizione più piccolo e meno gremito, consente di piazzare il proprio brand a un prezzo decisamente più elevato e che consenta quindi all’imprenditore di sostenere con più serenità i costi di una produzione aumentata.

Questa strategia, detta premium price, mette in luce le peculiarità che distinguono il nostro prodotto dalla massa (per esempio, una provenienza geografica particolare, un ingrediente ancora poco conosciuto o un processo di lavorazione unico), e si rivolge a una clientela esclusiva, disposta a pagare un prezzo importante per un vero e proprio bene di lusso.

Scopri di più nel nostro articolo di approfondimento sul product placement.

Nicchia di mercato: come individuarla e come inserirsi

La nicchia viene definita come un segmento del mercato di piccole dimensioni, nel quale la competitività è ancora bassa: si tratta di gruppo di consumatori con esigenze e richieste ben specifiche, che possono essere soddisfatte solo offrendo un prodotto particolare, studiato ad hoc.

Spesso, inserirsi in un mercato di nicchia si rivela una scelta vincente per incrementare le proprie vendite e affermarsi agli occhi un pubblico esigente ma ben disposto a pagare un premium price per il prodotto richiesto.

Per prima cosa, è bene definire il proprio target e poi procedere con ricerche in rete per verificare che la propria proposta non sia già stata sviluppata da altri. Se il nostro obiettivo è offrire la soluzione a un problema non ancora risolto, siamo sulla buona strada.

Strumenti come Google Keyworld Tool sono preziosi al fine di sondare il terreno: se a una parola chiave corrisponde un alto volume di ricerca significa che il nostro prodotto o l’esigenza alla quale vogliamo sopperire vengono ricercate dal pubblico e con tutta probabilità, è già stato proposto da tante aziende prima di noi. In questo caso possiamo affinare ancora di più la nicchia, individuando esattamente i punti non ancora sviluppati, su cui poter incentrare la nostra strategia di successo.

Un altro passo importante, è quello di studiare la concorrenza leggendo feedback e recensioni di acquirenti: sapremo così quali lacune presentano gli attori già affermati sul mercato.

Sono diversi i settori di nicchia che stanno vivendo un momento di espansione e di forte ricerca da parte degli utenti: tra questi oggi troviamo l’artigianato made in Italy (sia in Italia che all’estero), i prodotti biologici, vegani ed ecosostenibili, il food delivery e il planning delle attività (impegni, obiettivi, alimentazione e sport).

Il segreto per avere successo sta nello studio accurato del panorama e nella progettazione di un’offerta nuova che soddisfi il proprio target, per quanto piccolo, al 100% delle richieste.

Fidelizzare il cliente: la storia del private labelling

Nella lunga storia della Grande Distribuzione, un importante fenomeno che ne cambiò per sempre i connotati, fu l’introduzione del private labelling.

Siamo in America agli inizi degli anni ’70: è allora che i distributori si rendono conto della necessità del cliente di scendere a compromessi sulla qualità del prodotto, pur di spendere meno e riuscire ad arrivare a fine mese. Specialmente in periodi di crisi e recessione economica, infatti, si era disposti a sacrificare la buona qualità della merce, per un qualcosa di meno pregiato ma anche più accessibile. È con queste caratteristiche che nascono i prodotti a marchio privato, simili in tutto e per tutto a quelli dei grandi marchi nazionali, ma dal prezzo decisamente concorrenziale.

Se inizialmente era questa la filosofia alla base del private labelling, al giorno d’oggi viene utilizzata invece dagli attori della GDO come strategia per fidelizzare il cliente: sempre più catene infatti, hanno capito che per migliorare la propria store image è necessario investire nella creazione di gamme di prodotti a marchio privato, ognuna delle quali con un obiettivo e un target ben definito.

Dai prodotti biologici, vegani, per la cura della casa, degli animali o dei bambini, ormai il marchio privato non ha più nulla da invidiare al marchio nazionale, nemmeno in termini di qualità.

C’è da dire che secondo le statistiche, il cliente rimane comunque rassicurato dalla presenza sugli scaffali dei grandi colossi nazionali, soprattutto durante il primo approccio con un nuovo punto vendita. Dopo l’esperienza iniziale, però, ben 7 consumatori su 10 affermano di preferire il rapporto qualità-prezzo offerto dal private label, rispetto alle marche più conosciute.

Nonostante queste premesse più che positive, nel nostro Paese il fenomeno è ancora poco diffuso se paragonato al resto d’Europa, a causa della reticenza ad accettare che la qualità possa andare di pari passo con un prezzo accessibile a tutti.

Per saperne di più, leggi il nostro articolo sul private labelling.

Il mondo del Retail: la vendita al dettaglio nell’immaginario comune

In contrapposizione allo scenario della Grande Distribuzione, troviamo il concetto di retail, la cui definizione specifica è “vendita al dettaglio di beni o servizi, indirizzata a un utente singolo”. Nonostante ciò, nel gergo comune, si è ormai andata consolidando l’associazione tra la parola retail e l’immagine di un piccolo commerciante estraneo al mondo della grande distribuzione.

Il retail può essere suddiviso in tre grandi settori a seconda del bene commercializzato: il primo è quello dei prodotti alimentari, il secondo quello dei beni di consumo (come abbigliamento, calzature, oggetti per la cura della persona) e il terzo viene rappresentato dall’area dei beni di consumo durevole, ovvero soggetti a usura ma utilizzabili per un lasso di tempo più prolungato rispetto ai primi (ne fanno parte, per esempio, il settore dell’elettronica e quello delle automobili).

Il retail, non solo si esprime tramite i canonici punti vendita (denominati attività in sede fissa) che costellano i centri cittadini e le aree commerciali, ma si esprime anche tramite temporary shops, vending machines e internet retail.

Per approfondire, leggi il nostro articolo sul retail, la sua storia e le sue caratteristiche.

Out of stock: gli errori da non commettere per un’attività di successo

Gestire un punto vendita di successo comporta grandi responsabilità, conoscenza del prodotto e del mercato, inoltre richiede una mente acuta, organizzata e predisposta al problem solving.

Uno dei nemici giurati di tutte le attività commerciali è il tanto temuto fenomeno dell’”out of stock”, ovvero l’esaurimento improvviso delle scorte di un dato prodotto.

Se in veste di consumatori potremmo quasi non farci caso, come titolari di un punto vendita dovremmo davvero averne paura: trovare uno scaffale vuoto significa, nella migliore delle ipotesi, ritardare un acquisto… Mentre nella peggiore, regalare un cliente alla concorrenza.

I dati parlano chiaro: di fronte a una rottura di stock, il 10% degli italiani opta per un prodotto di un altro brand, mentre ben il 25% annulla direttamente la propria spesa.

Cosa fare quindi? Non dobbiamo certo restare inermi di fronte a un prodotto esaurito: è vero, le circostanze esterne che possono determinare lo stock out sono numerose e spesso variabili, ma una volta studiate e analizzate, saremo in grado di evitare che si verifichino e anzi, sfruttarle a nostro favore.

Conoscere l’andamento del mercato nel quale ci siamo inseriti è imprescindibile al fine di realizzare previsioni corrette della domanda. Stilarle in maniera approssimativa o errata, prima o poi porterà inevitabilmente a un out of stock: un aumento improvviso della domanda, ad esempio, è una delle primissime cause di questo fenomeno, di pari passo con gli errori di inventario.

Gestire il proprio magazzino in maniera precisa e rigorosa è uno dei segreti per un’attività commerciale di successo. Essere a conoscenza di tutte le disponibilità ci sarà di enorme aiuto al fine di evitare l’esaurimento di un prodotto, ordinando nuove scorte non appena raggiunto il reorder point.

L’intelligenza artificiale è uno strumento importantissimo del quale servirci per mantenere sotto controllo il nostro magazzino: esistono decine di software in grado di organizzare e schedare la merce in entrata e in uscita, nonché il buffer stock, ovvero le scorte su cui fare affidamento in caso di picchi improvvisi della domanda.

Nonostante questi accorgimenti, rimane sempre scoperta una piccola percentuale di rischio dovuta da fattori esterni e incontrollabili quali ritardi dei fornitori, dei trasporti o errori umani.

Scopri di più nell’articolo dedicato.

La rottura di stock come strategia per incrementare le vendite

Nel peggiore dei casi, non essendo riusciti a evitare un episodio di stock out, ci sono comunque alcuni accorgimenti e mosse strategiche alle quali ricorrere per mantenere intatta l’immagine aziendale: prima fra tutte, la richiesta di approvvigionamento immediato.

Essere chiari sulle motivazioni dello stock out, inoltre, fa in modo che non venga minata la fiducia che il consumatore ha in noi. Sarà più facile accettare la rottura di stock di un prodotto soggetto a stagionalità, a tiratura limitata, o addirittura fuori produzione, rispetto a quella di un prodotto da catalogo, non disponibile a causa di una mal gestione dello store.

È anche opportuno non eliminare totalmente gli spazi adibiti a una determinata merce, in quanto tale mossa darà l’idea di esclusione della stessa dal nostro assortimento.

Nel caso degli shop online, è bene spostare tutto ciò che è esaurito a fondo pagina, in modo che durante la navigazione ci siano più probabilità di trovare qualcos’altro che attiri l’attenzione dell’utente prima di giungervi. Inoltre, aggiungere prodotti similari tra i suggerimenti, farà in modo che al fronte di una rottura di stock, si decida comunque di continuare l’esperienza di shopping sul nostro sito invece di virare verso la concorrenza.

Per ovviare a uno stock out che sappiamo essere di breve durata (per esempio, quando già ci è stata comunicata dal fornitore la data della consegna della merce), un piccolo trucchetto è quello di mantenere il prodotto disponibile sull’ecommerce, semplicemente aumentando le tempistiche di preparazione e spedizione. In questo modo il cliente non dovrà affrontare nessun intoppo durante l’acquisto, che porterà a termine con la consapevolezza di dover attendere qualche giorno in più prima di riceverlo.

Ma la rottura di stock… è sempre accidentale?

La risposta è NO.

Ultimamente viene utilizzata sempre più spesso come una vera e propria strategia per creare una sensazione di necessità e urgenza nella mente del cliente, che verrà irresistibilmente attratto da un prodotto esclusivo e molto difficile da reperire.

Nonostante si sia rivelata molto efficace, è bene utilizzare questo stratagemma con saggezza: ottimo se applicato al settore dell’elettronica e all’abbigliamento, diventa invece deleterio se usato su beni di prima necessità. Di fronte alla rottura di stock di un prodotto alimentare, per esempio, il cliente non potrà far altro che recarsi presso un altro rivenditore, impossibilitato ad attendere un nostro eventuale rifornimento.

Leggi nel nostro articolo tutti i segreti di questa strategia!

Retail apocalypse: il collasso dei piccoli punti vendita

Il mondo dell’internet retail, dalla sua nascita negli anni ’90 a oggi, ha comportato un cambio drastico nei comportamenti e nelle preferenze degli utenti e, come diretta conseguenza, anche nell’andamento del mercato in sé e per sé.

Per un’attività commerciale è ormai fondamentale poter contare su una piattaforma online ben strutturata ed efficiente, proprio perché le nuove generazioni prediligono acquistare su internet risparmiando tempo e la fatica dello spostamento verso il negozio fisico. Inoltre, negli ultimi due decenni, sono cambiate anche le preferenze di investimento degli acquirenti: se prima si era ben disposti a impiegare i guadagni nell’acquisto di beni di consumo, ora si preferisce utilizzarli per concedersi vere e proprie esperienze, come viaggi, cene e attività di intrattenimento.

Questo mutamento della clientela, unito a periodi di crisi economica (di cui stiamo avendo un chiaro esempio anche ora, nell’epoca del Covid-19), ha portato alla luce un fenomeno denominato “retail apocalypse”, ovvero la chiusura “a domino” di decine di migliaia di attività commerciali.

Iniziata nel 2010, ma entrata nel gergo comune solo nel 2017, l’apocalisse della vendita al dettaglio si è verificata soprattutto negli USA, scatenandosi sui punti vendita facenti parte di grandi catene distributive. In Italia, si teme, al contrario, specialmente per i piccoli commercianti. Qual è il futuro del nostro Paese? Scoprilo nel nostro approfondimento dedicato alla retail apocalypse.

Il futuro è oggi: l’evoluzione dei pagamenti e il sopravvento delle transazioni digitali

Mantenendoci in tema di prospettive future, un altro aspetto del mondo del commercio al dettaglio in continua evoluzione, è quello dei pagamenti.

Con la presenza di internet ormai totalitaria all’interno delle nostre vite, anche il classico pagamento “cash” sta ormai perdendo terreno.

I vantaggi rappresentati dai pagamenti elettronici sono infatti innegabili: oltre alla completa tracciabilità delle transazioni, pagare con carta di credito o debito, smartphone e piattaforme come Paypal, Satispay e Sisalpay è estremamente rapido, funzionale e sicuro anche per gli esercenti, che risparmiano così il tempo una volta impiegato nella gestione del contante, e scongiurano il rischio di assalti e rapine.

Se nella teoria appare tutto semplice e lineare, nella pratica per quanto riguarda il nostro Paese, l’affermazione dei pagamenti digitali ha incontrato diverse difficoltà lungo il cammino.

Complici sono stati lo scetticismo da parte della popolazione di età avanzata nei confronti dei pagamenti elettronici, una percentuale di unbanked (ovvero cittadini sprovvisti di conto corrente bancario o postale) da non sottovalutare e soprattutto la mancanza di un unico, grande sistema digitale in cui possano confluire tutti quelli esistenti.

Ciò che si è verificato è stata la necessità degli esercenti di selezionare i circuiti ai quali appoggiarsi, lasciandone inevitabilmente fuori altri: gli alti tassi di interesse per transazione e i canoni di gestione, infatti, hanno spesso penalizzato e messo in ginocchio le piccole attività commerciali, che di conseguenza si sono dimostrate restie nell’accettazione di micro pagamenti elettronici.

Per incentivare l’abbandono del denaro contante, lo Stato ha messo in atto negli ultimi anni diverse iniziative, tra le quali l’abbassamento della soglia massima per transazioni liquide, ora ferma a 2000€ ma con previsioni di ulteriore calo, e l’introduzione del cosiddetto Cashback di Stato, ovvero un rimborso del 10% su tutte le spese effettuate tramite l’utilizzo di carte di pagamento.

Per scoprire di più sul futuro dei pagamenti nella mondo del retail e della grande distribuzione, dai un’occhiata al nostro articolo dedicato.

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